Confisca per equivalente dei beni utilizzati per commettere reati societari (art. 2641, co. 1 e 2 c.c.). Questione di legittimità costituzionale

di Maria Giovanna Brancati

1. La misura della confisca rappresenta uno dei punti focali del progetto BORDERLINE, in quanto strumento poliedrico di contrasto alla criminalità.

Tra gli ultimi arresti giurisprudenziali, in particolare in tema di confisca per equivalente, si segnala la questione di legittimità costituzionale sollevata nell’ambito della nota vicenda che ha coinvolto la Banca Popolare di Vicenza.

Lo scorso febbraio, la Sez. V penale della Corte di Cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641, co. 1 e 2 c.c. nella parte in cui dispone la confisca per equivalente anche dei beni utilizzati per commettere il reato per manifesta sproporzionalità della misura, in relazione agli artt. 3, 27, co. 1 e 3, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del primo Protocollo addizionale Cedu, la cui ratifica è stata autorizzata con L. 4 agosto 1955, n. 848 che a esso ha dato esecuzione, nonché agli artt. 1 e 117 Cost., con riferimento agli articoli 17 e 49, par. 3 Cdfue, proclamata a Nizza li 7 dicembre 2000.

2. La questione sollevata prende le mosse dal giudizio di legittimità originatosi con ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia, in cui si lamentava la mancata applicazione della confisca per equivalente a opera della Corte territoriale.

Quest’ultima, infatti, argomentando sulla base di quanto ricavabile dalla sentenza C-205/20 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, aveva ritenuto di dover revocare la misura disposta in primo grado, disapplicando la norma nazionale, in quanto ritenuta conseguenza sproporzionata.

In quella sede, si osservava in via generale che il giudice nazionale è titolare di un dovere di garantire la piena efficacia del principio di proporzionalità della sanzione, avente valore “imperativo”.

Di conseguenza, qualora le disposizioni nazionali contrastino con esso e non vi sia spazio per procedere a un’interpretazione della normativa nazionale conforme a tale requisito, il giudice dovrà disapplicare di propria iniziativa le disposizioni nazionali incompatibili con il citato principio.

Nel caso di specie, l’integrale disapplicazione della confisca, piuttosto che una riduzione della stessa, si era imposta sia per la piena idoneità del trattamento sanzionatorio “principale” a esaurire adeguatamente la risposta punitiva dello Stato, sia per l’assenza di qualsivoglia profitto in capo agli imputati, suscettibile di valutazione economica, al quale ancorare l’importo da sottoporre a confisca.

Questa ricostruzione è stata contestata dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello, che proponeva ricorso presso la Corte di Cassazione, asserendo che la diretta disapplicazione in assenza di una base legale sufficientemente determinata finirebbe per attribuire al giudice valutazioni discrezionali in tema di politica criminale, rimesse dalla nostra Costituzione al legislatore, in violazione dei principi di legalità e di separazione dei poteri.

Secondo il ricorrente, il giudice del merito, in specie, non avrebbe potuto revocare la confisca, disapplicando la norma, poiché essa è concepita dal legislatore come “obbligatoria”. Perciò, si è sollecitato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia al fine di ottenere un’interpretazione della sentenza della Grande Sezione, 8 marzo 2022, in C-205/20, quanto al se la normativa nazionale debba essere disapplicata anche quando si ritiene che la base legale non sia sufficientemente determinata.

3. La Corte di Cassazione, pur ritenendo la questione sottoposta dal Procuratore Generale non manifestamente infondata, potendo ravvisare dei profili di violazione di legge nell’operato della Corte territoriale, ha individuato quale opportuno rimedio la questione di costituzionalità in luogo del rinvio pregiudiziale, dovendo in primo luogo valutare i profili di legittimità della misura prevista dal legislatore nazionale.

La Corte ha sostenuto che quando l’ablazione patrimoniale dei beni utilizzati per commettere il reato riguarda reati come l’aggiotaggio, in cui detti beni sono costituiti da somme di denaro, la confisca per equivalente di questi ultimi rischia di assumere carattere sempre sproporzionato perché tali somme potrebbero risultare di gran lunga superiori al vantaggio economico ricavato o, addirittura, essa potrebbe essere disposta in assenza di profitto.

Così, è proprio il meccanismo di confisca per equivalente strutturalmente correlato ai beni utilizzati per commettere il reato a essere costruito dal legislatore in termini che non garantiscono in astratto, al di fuori dei casi dei tradizionali instrumenta sceleris, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, la proporzionalità della risposta sanzionatoria, perché essa, intesa come “obbligatoria” e allo stesso tempo non modulabile nella sua entità dal giudice, finisce sempre per tradursi in una misura di per sé (anche indipendentemente dal suo cumularsi con la pena “principale”) manifestamente sproporzionata in quanto slegata da ogni legame col fatto e, per di più, inesigibile se si utilizzano i criteri di ragguaglio della pena ex art. 135 c.p.

Secondo i giudici di legittimità, quindi, le peculiarità strutturali della confisca ex art. 2641, co. 1 e 2 c.c., prima ancora che un problema di proporzionalità rispetto alla complessiva risposta sanzionatoria, eventualmente valutabile nei termini espressi dal Procuratore Generale, pongono un problema di proporzionalità intrinseca alla misura, ossia di razionale costruzione dei suoi presupposti al fine di individuare una risposta adeguata al fatto considerato nella complessità dei suoi elementi costitutivi, da valutare in sede di legittimità costituzionale.